Tra vestiti che cantano

 

 

Una citazione e un omaggio a Rosso di San Secondo, la scelta di questo titolo. Una scelta teatrale, perché è in questa prospettiva che voglio rimanere parlando di abiti.

Subisco il fascino dei costumi da quando ero piccolissima e calcavo le scene del tutto inconsapevole di dove mi trovassi. Affascinata da tessuti e colori illuminati da luci abbaglianti, animati da personaggi, non da persone.

Fino al 1958, quando andai a vedere il Sogno di una Notte di Mezza Estate a Ostia Antica e rimasi del tutto soggiogata da abiti che non erano solo abiti, non erano solo stoffe, gemme, piume, cristalli, ma parte integrante della scena, della recitazione, del testo. Del Sogno.

Non solo bellezza, ma parte essenziale e in qualche modo esplicativa del Sogno shakespeariano. Perché Shakespeare non è solo testo, ma luci, scene, musica. Teatro. E i costumi sono l’essenza di una rappresentazione, sono il primo impatto visivo ma anche il movimento che trascina, sono domanda e al tempo stesso spiegazione.

Da quel momento non ho mai smesso di cercare di capire gli abiti, di andare oltre il desiderio di perdermi semplicemente nella bellezza, tentazione che sopravvive tutt’ora che sono diventati per me oggetto di studio e impegno quotidiano: perdermi nelle forme e nei colori, nei chiaroscuri, nelle sfumature infinite, senza pensare, godere solo di tanta bellezza.

Ma qualcosa mi manca quasi sempre: un abito è un sogno, una meraviglia, un capolavoro, ma come capirlo veramente se rimane addosso a un manichino? Certo, è sempre bellissimo, ma io ho ancora negli occhi Titania e Oberon, Puck e le ancelle della Regina: abiti che parlano, abiti che danzano, abiti che sono personaggi, riflessioni, sogni, paure, risate o grida, albe o tramonti, incognite o misteri.

Cosa può valorizzare davvero un abito? Cosa può dargli veramente vita?

L’algida bellezza delle modelle? No, può andare per una sfilata, ma una modella che cammina sempre nello stesso modo, sempre con la stessa espressione, che non pensa nemmeno a quello che indossa perché non ne ha il tempo, non può capire un abito. Un’attrice, una star? Magari sul carpet? No, ancora no: l’abito sul tappeto rosso diventa un complemento, non ha una sua vita se chi lo indossa si mette in posa davanti ai fotografi. E così la frustrazione rimane, sull’onda di quel ricordo di bimba, di abiti mossi e vivi, tutt’uno con visi, occhi, capelli. Ma questo è teatro, mi dico, ed è un modo tutto particolare di dare vita ad un abito.

E allora? Se fosse proprio questo il modo migliore di dargli vita?

Mi è arrivata la  conferma giorni fa, guardando un vecchio programma.

Mina.

Che canta e ci strega, come sempre, ma con qualcosa in più ad esaltare il suo canto.

Un abito.

Bellissimo.

Ma non è solo la bellezza di quest’abito che mi colpisce, perché ne ha indossati tanti di belli.

E non è solo la bellezza di lei, anche se è strepitosa.

È l’insieme che lascia senza fiato. Non solo un abito bianco, ma un abito che si muove, che prende vita da una donna che canta ed incanta, un abito che dialoga con lei, che esalta i suoi occhi, il suo sorriso, la sua espressione, la sua voce.

Ecco: questo fa capire cosa può essere un abito se lo indossa una donna che si muove e vive con lui, che ne avverte il valore. Un abito in armonia con il canto, un abito fatto per una donna che racconta una storia che sa di bellezza, la sua bellezza, la bellezza di un abito che la capisce e interagisce con lei. Armonia e bellezza, su un palco di fronte a noi, con la stessa magia di quel Sogno di un tempo lontano. Mi emoziono, e le parole svaniscono.

Non so come potrebbe fare uno stilista a far vivere così i propri abiti, se non su un palcoscenico. Non ho proposte, soltanto desideri.

E un rimpianto.

Non aver visto mai sul palco,

negli abiti dolenti di Violetta,

Lei.

Maria Callas.