Il ricordo dell'intervista al Grande Calciatore mi ha riportato alla mente tutte le altre interviste che ho fatto nella mia vita giornalistica. Nessuna di queste è neanche lontanamente paragonabile a quella prima, fantastica avventura, tuttavia un paio di queste sono abbastanza interessanti, anche se solo una di loro è stata pubblicata. Quella a cui sono più affezionata è forse l'intervista a Giorgio Gaber, che feci nel 1976 a Torino. Non ci fu niente di particolarmente avventuroso nel suo svolgimento in quel caso. Mi trovato a Torino in tournée, vidi i manifesti dello spettacolo di Gaber, gli telefonai in albergo e andai a fare l'intervista. Tutto qui, niente di eclatante. Ma il fatto curioso è che lo trovai alla reception che scriveva con due dita sulla macchina da scrivere dell'albergo una replica indignata a qualche articolo che aveva scritto qualche giornalista scandalistico, non so più chi né tanto meno dove. Evidentemente finivo sempre per intervistare persone disgustate dalla stampa ufficiale, il che facilitava il mio compito di giornalista free lance, molto free e poco lance, che scriveva per il gusto di scrivere e intervistava persone per il gusto di conoscerle.
Giorgio Gaber era affabile e simpatico esattamente come si poteva immaginare e privo di qualsiasi posa. Cominciammo a parlare in albergo e poi mi invitò ad andare con lui in un'osteria per mangiare qualcosa insieme ai suoi musicisti e tecnici, prima dello spettacolo. Ricordo che la cosa mi colpì: noi in teatro eravamo abituati a mangiare sempre dopo, nessuno si sarebbe sentito di affrontare il palcoscenico con lo stomaco pieno, neanche una comparsa, perché i rischi sarebbero stati pesantissimi... invece lui tranquillo mangiava di gusto prima di affrontare uno spettacolo dove per più di due ore era solo in scena, e dove cantava e recitava, senza risparmiarsi mai.
Non so esattamente cosa gli chiesi, e non scrissi mai quell'intervista; so solo che passai due ore piacevolissime, ma che qualcosa di negativo mi colpì in lui già da allora. Era magro, magrissimo, e va bene, ma quando mi diede la mano notai una durezza, un nervosismo in lui, che andava oltre il naturale metabolismo che gli aveva dato quella figura sottile e allampanata. Già da allora si poteva notare nei suoi occhi una cupezza, una mancanza di speranza, che tanto contrastava con la dolcezza del suo sguardo quando, qua e là distraendosi, sorrideva.
Ripensando a Gaber ho riascoltato alcuni dei brani che mi avevano colpito di più a suo tempo, e mi ha quasi spaventato la sua totale mancanza di speranza, che allora ero troppo giovane per cogliere nella sua profondità. Ma bisogna dire che lui era cresciuto intellettualmente in una cultura, quella degli anni Sessanta e Settanta, che faceva di infelicità e morte una specie di vessillo, una conditio sine qua non. La felicità era una colpa e l'amore, per le persone colte e intelligenti, poteva essere solo disincantato e cinicamente impossibile. Chi era felice era stupido. Chi era innamorato e magari ricambiato era destinato o all'infelicità o a essere considerato un deficiente. Non sto esagerando. La moda imponeva Nietzsche e Baudelaire, e molti altri filosofi e poeti, accettati e interpretati solo nella loro interpretazione più estrema di morte, di dolore, di male. Il bene era stupido, il male forse da combattere ma sicuramente più stimato.
La nostra generazione aveva scoperto che per la prima volta nella storia noi giovani potevamo essere un soggetto pensante: avevamo voglia di conoscere, di capire, di cambiare, di crescere intellettualmente. E noi giovani intellettuali, per lo meno amavamo considerarci così, leggevamo tantissimo e di tutto, soprattutto filosofia: non sempre ci capivamo granché ma avevamo una gran voglia di sapere, di discutere, di pensare, di suonare, di viaggiare, di esplorare l'infinito. Così siamo caduti ben bene in questa trappola che ci obbligava a fare tutto quello che volevamo, a patto di accettare queste equazioni: intelligenza uguale infelicità, felicità uguale deficienza.
Ripeto: non sto esagerando e vorrei dimostrarvelo proprio facendovi riflettere su due brani di Giorgio Gaber, veramente emblematici di quel tempo e di quel pensiero. Lo spettacolo da cui sono tratti questi due brani era “Anni Affollati”, del 1981, ma che contiene tutti gli elementi sviluppati nei due decenni precedenti.
Il primo su cui vorrei riflettere è questo:
Giorgio Gaber: L'illogica allegria
Ad un primo ascolto quello che colpisce è solo, come sempre, che la canzone è bella, e lui è bravo, bravissimo. Sembra anche una canzone rilassata, dolce, un po' soft, ma se ci soffermiamo meglio sul testo le troviamo tutte, le trappole mortali:
Da solo
lungo l'autostrada
alle prime luci del mattino.
A volte spengo anche la radio
e lascio il mio cuore incollato al finestrino.
Lo so del mondo e anche del resto
lo so che tutto va in rovina
ma di mattina quando la gente dorme
col suo normale malumore
mi può bastare un niente
forse un piccolo bagliore
un'aria già vissuta
un paesaggio o che ne so.
E sto bene
Io sto bene come uno quando sogna
non lo so se mi conviene ma sto bene,
che vergogna.
Io sto bene
proprio ora, proprio qui
non è mica colpa mia
se mi capita così.
È come un'illogica allegria
di cui non so il motivo
non so che cosa sia.
È come se improvvisamente
mi fossi preso il diritto
di vivere il presente
Io sto bene...
Questa illogica allegria
proprio ora, proprio qui.
Da solo lungo l'autostrada alle prime luci del mattino...
Partiamo dal titolo: L'illogica allegria.
L'allegria non è logica: non è motivata, e quindi non è intelligente. Morale: chi è felice non è intelligente. E' quasi un postulato. Ma andiamo avanti.
Da solo
lungo l'autostrada
alle prime luci del mattino...
Quando questa allegria diventa possibile? Quando si è soli, innanzitutto. Gli altri possono essere fonte solo di altra infelicità, mai di condivisione di allegria.
Lo so del mondo e anche del resto
lo so che tutto va in rovina
ma di mattina
quando la gente dorme
col suo normale malumore
Si può essere allegri di nascosto, mentre la gente dorme (con il suo normale malumore, il buonumore non è considerato normale), senza nessuno che possa interferire in questo consapevole stato di perenne scontentezza e insoddisfazione dovuta ai problemi di un mondo che va in rovina. Questa è una vera fotografia della mentalità di quei tempi, la mentalità degli intellettuali per lo meno. “Il mondo va in rovina” era una frase ricorrente, costante, in tutti i discorsi. Mi verrebbe da replicare, da storica quale mi sento nell'anima se non nel sapere, quando mai il mondo non è andato in rovina, quando mai è stato un luogo sereno e tranquillo, privo di conflitti e tragedie. E perché mai noi comuni mortali dovremmo aspettare di aver aggiustato il mondo prima di aggiustare la nostra vita, di aver reso felice il mondo prima di rendere felice la nostra vita. E, cosa più importante di tutte, di aver cambiato il mondo prima di cambiare la nostra realtà individuale. Ma questo brano è qualcosa di più di una canzone, è un'emblema di quella mentalità che ci ha imprigionato e reso impotenti, presi dai nostri sogni di gloria, impedendoci di fare poco nell'ansia e nella smania di voler fare tutto.
E sto bene
Io sto bene come uno quando sogna
non lo so se mi conviene
ma sto bene,
che vergogna.
Quando è che si può stare bene? Solo in sogno. E poi forse non è conveniente, stare bene, non è in linea con i dettami dell'ambiente che si frequenta e, soprattutto è una VERGOGNA. Stare bene è vergognoso, non bisogna farlo sapere in giro. Stare bene non sta bene... per dirla con una frase molto borghese... La sottile, delicata ironia di Gaber evidenzia alla perfezione quello che era mentalità comune in quegli anni: non azzardiamoci a dire che siamo allegri e contenti, oppure verremo tacciati di idiozia...
Io sto bene
proprio ora, proprio qui
non è mica colpa mia
se mi capita così.
E qui arriviamo proprio al massimo: stare bene è una colpa, e bisogna scusarsi se capita, promettendo implicitamente che non succederà mai più...
Se 'L'illogica allegria era un brano triste travestito da allegro quello che vi propongo ora lo definirei addirittura tragico, se non spaventoso:
In una spiaggia poco serena
Camminavano un uomo e una donna
E su di loro la vasta ombra del dilemma;
L'uomo era forse più audace,
Più stupido e conquistatore,
La donna aveva perdonato, non senza dolore.
Il dilemma era quello di sempre,
Un dilemma elementare:
Se aveva o non aveva senso il loro amore.
In una casa a picco sul mare
Vivevano un uomo e una donna,
E su di loro l'ombra del dilemma;
L'uomo è un animale quieto
Se vive nella sua tana,
La donna non si sa se è ingannevole, o divina;
Il dilemma rappresenta
L'equilibrio delle forze in campo
Perché l'amore e il litigio sono le forme del nostro tempo.
Il loro amore moriva,
Come quello di tutti,
Come una cosa normale e ricorrente;
Perché morire e far morire
È un'antica usanza che suole aver la gente.
Lui parlava quasi sempre
Di speranza e di paura
Come l'essenza della sua immagine futura;
E coltivava la sua smania,
E cercava la verità,
Lei lo ascoltava in silenzio,
o forse ce l'aveva già;
Anche lui, curiosamente,
Come tutti, era nato da un ventre
Ma purtroppo non se lo ricorda, o non lo sa.
E in un giorno di primavera
Mentre lei non lo guardava
Lui rincorse lo sguardo di una fanciulla nuova;
E ancora oggi non si sa
Se era innocente come un animale
O se era come istupidito dalla vanità;
Ma stranamente lei si chiese
Se non fosse un'altra volta il caso
Di amarlo, di restare fedele al proprio sposo.
Il loro amore moriva
Come quello di tutti,
Con le parole che ognuno sa a memoria;
Sapevan piangere e soffrire
Ma senza dar la colpa All'epoca, o alla storia...
Questa voglia di non lasciarsi
Era difficile da giudicare,
Non si sa se è una cosa vecchia, o se fa piacere;
Ai momenti di abbandono
Alternavano le fatiche
Con la gran tenacia che è propria delle cose antiche;
E questo è il succo di questa storia,
Peraltro senza importanza
Che si potrebbe chiamare appunto: resistenza.
Forse il ricordo di quel maggio
Insegnò anche nel fallire
ll senso del rigore, il culto del coraggio;
E rifiutarono decisamente
Le nostre idee di libertà in amore,
A quella scelta non si seppero adattare;
Non so se dire a questa nostra scelta
O a questa nostra nuova sorte,
So soltanto che loro si diedero la morte.
Il loro amore moriva
Come quello di tutti,
Non per una cosa astratta, come la famiglia,
Loro scelsero la morte
Per una cosa vera,
Come la famiglia...
Io ci vorrei vedere più chiaro,
Rivisitare il loro percorso,
Le coraggiose battaglie che avevano vinto o perso;
Vorrei riuscire a penetrare
Nel mistero di un uomo e di una donna,
Nell'immenso labirinto di quel dilemma.
Forse quel gesto disperato
Potrebbe anche rivelare
Il segno di qualcosa che stiamo per capire.
Il loro amore moriva
Come quello di tutti,
Come una cosa normale e ricorrente;
Perché morire e far morire
È un'antica usanza
Che suole aver la gente...
Non so a voi, ma a me fa venire i brividi questo brano. E' bellissimo, non c'è che dire, ma qui non c'è traccia di ironia e divertimento, c'è solo tragedia. L'amore non ha alcuna speranza di sopravvivere se non nella morte. Un paradosso comprensibile culturalmente, ma del tutto senza speranza.
Proviamo ad analizzare il testo: Gaber ci spiega subito il senso del titolo, nella prima strofa:
In una spiaggia poco serena
Camminavano un uomo e una donna
E su di loro la vasta ombra del dilemma;
L'uomo era forse più audace,
Più stupido e conquistatore,
La donna aveva perdonato, non senza dolore.
Il dilemma era quello di sempre,
Un dilemma elementare:
Se aveva o non aveva senso il loro amore.
Eccolo qui, il dilemma: l'amore tra un uomo e una donna ha senso o no? A quell'epoca, in quel tempo, ma basandosi su una cultura molto più antica, fondamentalmente la risposta era no. L'amore era una necessità riproduttiva, ma non un atto di conoscenza. In questa strofa purtroppo gli stereotipi sul maschile e femminile ci sono già tutti: nell'uomo stupido e conquistatore, nella donna che dolorosamente perdona. Apparentemente l'uomo si denigra, definendosi stupido, ma in realtà segna con queste parole una distanza incolmabile dalla donna che dolorosamente perdona: non c'è scambio tra i due, non c'è dialogo. Non ci può essere dialogo, perché è come se appartenessero a due specie diverse.
In una casa a picco sul mare
Vivevano un uomo e una donna,
E su di loro l'ombra del dilemma;
L'uomo è un animale quieto
Se vive nella sua tana,
La donna non si sa se è ingannevole, o divina;
Il dilemma rappresenta
L'equilibrio delle forze in campo
Perché l'amore e il litigio sono le forme del nostro tempo.
Anche qui tornano gli stereotipi: l'uomo torna a denigrarsi in apparenza, la donna viene definita ingannevole o divina: sempre divisa in due, o puttana o santa, ma mai una donna intera, con tutte le sue innumerevoli sfaccettature. E soprattutto lontana dall'uomo, così irraggiungibile che ogni sforzo di dialogare con lei diventa impossibile. E cosa vuol dire che “l'amore e il litigio sono le forme del nostro tempo”? Entità equivalenti? O di nuovo stereotipi?
Il loro amore moriva,
Come quello di tutti,
Come una cosa normale e ricorrente;
Perché morire e far morire
È un'antica usanza che suole aver la gente.
Qui la teoria sottesa a quasi tutta l'opera di Gaber: l'amore magari arriva, se non altro per necessità riproduttiva, ma è comunque destinato a morire, come tutto, tutto muore o viene fatto morire. Una cultura di morte. Ma la storia raccontata in questo brano va ben oltre.
Lui parlava quasi sempre
Di speranza e di paura
Come l'essenza della sua immagine futura;
E coltivava la sua smania,
E cercava la verità,
Lei lo ascoltava in silenzio, o forse ce l'aveva già;
Anche lui, curiosamente,
Come tutti, era nato da un ventre
Ma purtroppo non se lo ricorda, o non lo sa.
Torniamo agli stereotipi, ma pesanti, pesantissimi: lui parla e pensa, lei tace e non ricerca, forse perché a causa della sua cosiddetta "natura di donna" la verità ce l'ha in sé, ma a livello animale, non razionale. Tanto che lui stesso, pur nato da un ventre (sembra quasi di sentir echeggiare il termine “fornetto” usato da Aristotele per definire l'utero) ha perso ormai la memoria di questa “natura” a cui si associa la donna. In sostanza: l'uomo è razionale, e quindi intelligente, la donna è “naturale” che echeggia molto “animale”, non in grado di pensare razionalmente... di fatto, stupida. Divina, incantevole, ma stupida.
E in un giorno di primavera
Mentre lei non lo guardava
Lui rincorse lo sguardo di una fanciulla nuova;
E ancora oggi non si sa
Se era innocente come un animale
O se era come istupidito dalla vanità;
Ma stranamente lei si chiese
Se non fosse un'altra volta il caso
Di amarlo, di restare fedele al proprio sposo.
Ecco come una canzone così bella, apparentemente così nuova, in realtà rovina, sempre di più, negli stereotipi più crudi e retrivi. Cosa provoca la crisi? il tradimento di lui attratto da una ragazza più giovane, cioè quanto di più banale si possa pensare. Ma per quanto lui sia innocente o stupido, sembra sempre comunque in movimento di fronte alla staticità di colei che, ancora una volta, tace e perdona. Non si arrabbia, non combatte, non parla, non urla, non lo costringe a guardarla, a parlare con lei. Tace, soffre e perdona. Sapete qual è la mia reazione di donna viva rispetto a questo tacere e perdonare? Di rabbia. Rabbia pura. Ma rabbia vitale.
Il loro amore moriva
Come quello di tutti,
Con le parole che ognuno sa a memoria;
Sapevan piangere e soffrire
Ma senza dar la colpa
All'epoca, o alla storia...
Questa voglia di non lasciarsi
Era difficile da giudicare,
Non si sa se è una cosa vecchia, o se fa piacere;
Ai momenti di abbandono
Alternavano le fatiche
Con la gran tenacia che è propria delle cose antiche;
E questo è il succo di questa storia,
Peraltro senza importanza
Che si potrebbe chiamare appunto: resistenza.
Qui sembra che ci sia qualcosa di nuovo: la capacità di saper piangere e soffrire assumendosi la responsabilità della propria vita e senza cercare capri espiatori, è un segno interessante, così come questa tenacia nel cercare di capire questa storia d'amore, questa fedeltà alla relazione. Una resistenza al nichilismo allora tanto di moda, forse... ma come finisce? Qual è in realtà la soluzione alla voglia di non lasciarsi? Eccola qui, nella prossima strofa, pesante come un macigno:
Forse il ricordo di quel maggio
Insegnò anche nel fallire
ll senso del rigore, il culto del coraggio;
E rifiutarono decisamente
Le nostre idee di libertà in amore,
A quella scelta non si seppero adattare;
Non so se dire a questa nostra scelta
O a questa nostra nuova sorte,
So soltanto che loro si diedero la morte.
La morte. Ecco dove va a finire questa storia d'amore. Nella morte. E sai che novità. Eros e Thanatos non sono binomi nuovissimi direi, e qui trovano nuovo vigore, uccidendo letteralmente qualsiasi tentativo di costruire un rapporto nuovo tra uomo e donna. Se l'amore muore non si cerca di ridargli vita, parola, scambio, movimento. Per restare fedeli all'amore l'unica soluzione è la morte degli amanti. Capisco l'insofferenza per la cosiddetta “libertà in amore” anche quella emblema degli anni '60 e '70. Fedeltà come possesso, libertà di tradire, eccetera, eccetera, eccetera... La capisco, questa insofferenza, perché era quasi sempre una fuga, una fuga dall'impegno, non da una fedeltà astratta, non da una regola, che era comprensibile voler infrangere, ma una fuga dalla fatica, dall'impegno necessario a conoscere, capire e rispettare un'altra persona... Ma perché la soluzione doveva essere la morte e non la vita? Perché l'abbandono e non la responsabilità? Perché la resa e non la lotta?
Il loro amore moriva
Come quello di tutti,
Non per una cosa astratta, come la famiglia,
Loro scelsero la morte
Per una cosa vera,
Come la famiglia...
Questa strofa non l'ho mai capita, non la capisco e forse non la voglio neanche capire. La famiglia non è fatta di regole né certificati ma di relazioni d'amore, questo lo capisco. Ma scegliere la morte per amore della famiglia? Non è aberrante?
Io ci vorrei vedere più chiaro,
Rivisitare il loro percorso,
Le coraggiose battaglie che avevano vinto o perso;
Vorrei riuscire a penetrare Nel mistero di un uomo e di una donna,
Nell'immenso labirinto di quel dilemma.
Forse quel gesto disperato
Potrebbe anche rivelare
Il segno di qualcosa che stiamo per capire.
Il loro amore moriva
Come quello di tutti,
Come una cosa normale e ricorrente;
Perché morire e far morire
È un'antica usanza
Che suole aver la gente.
“Un gesto disperato, segno di qualcosa che forse stiamo per capire”. E' onesta e disperata questa frase, come se ci fosse un desiderio di andare oltre, pur riconoscendosene incapaci. E allora capisco perché mi piace ancora, questo brano. Perché è onesto. E' Gaber che ci racconta le sue paure, i suoi fallimenti, la sua disperazione, forse il suo rimpianto di non sapere cos'è, l'amore, di non averne traccia, testimonianza, memoria. E' lui che ci racconta il suo dolore: non è una teoria quella che enuncia, ma la forma poetica del suo dolore di uomo.
Da allora non l'ho seguito più molto: so solo che è diventato sempre più rigido, sempre più arrabbiato e disincantato, e i suoi occhi sono diventati sempre più lontani. E' destino che io ricordi soprattutto i sorrisi delle mie interviste più importanti, e così ricordo anche il suo, di sorriso, ancora divertito, ancora con uno sprazzo di quella dolcezza dei primi tempi, quando cantava canzoni semplici, non brani impegnati, ma riusciva a dar loro una certa autorità di poesia...
A lui va il mio omaggio: con affetto, rispetto e considerazione di quanto tutto ciò che ha scritto e cantato gli sia costato fatica, impegno, coerenza, dolore.
Ma vorrei chiudere questa riflessione con un ricordo, parlandovi di me. Negli anni '60 ero piccola, negli anni '70 ero giovane, ma la mia testa è sempre stata parecchio dura e mi sono sempre ribellata a ciò che secondo me non aveva senso. Mi rifiutavo di accettare il binomio amore/morte, mi rifiutavo di pensare che un rapporto sano e consapevole tra due persone fosse impossibile o destinato a morire, tanto meno che fosse sensato darsi la morte come unica possibilità di farlo vivere. Mi rifiutavo di pensare che la felicità fosse cosa da stupidi e che l'intelligenza fosse solo fonte di disperazione. Anche perché io, test alla mano, ero molto intelligente :-)))) (e presuntuosa, lo so).
No, io volevo essere intelligente e felice, volevo essere viva e vitale, innamorarmi e godermi la vita, con tutto quello che avevo a disposizione: corpo, psiche, sentimenti, ratio, ecc, senza trascurare niente. La vita, per fortuna, mi ha dato ragione. So per esperienza, e quel che è più bello non solo per mia esperienza, che si può essere intelligenti e felici, che si può amare ed essere riamati, e costruire questo amore giorno per giorno, dandogli vita, e non morte. Ho fatto due figli e li ho fatti con tutto quel che avevo, non solo con gli ormoni, il corpo e il fornetto di Aristotele: li ho fatti con la mia intelligenza, con il mio spirito, con tutto l'universo che ho sentito concentrato in me nel grande Big Bang che è la nascita di un bambino.
Ma scendendo giù dall'iperuranio dove per un attimo mi sono proiettata, in tutti questi anni ho sentito anche nascere, piano piano, modi tutti nuovi di vivere le storie d'amore: consapevolezze nuove dell'essere donna e dell'essere uomo. E ho anche sentito nascere nuove canzoni, che raccontavano di amori vissuti e non morti, amori incasinati ma anche felici, amori fatti di dolore e di lacrime, ma anche di sorrisi e risate. Amori vissuti e amori vitali. Così chiudo regalandovi un'altra canzone, che forse non è geniale come quelle di Gaber, ma che parla d'amore, un amore che vive, che cambia, che s'incasina, che ha paura, che gioca, saltella, traballa e poi si riassesta, a cui vengono magari i capelli bianchi, che diventa diverso, che è pronto a conoscere il mondo e forse anche le galassie. Che forse può anche finire ma rimanere amore. E che la morte non sa proprio cosa sia.
Anche perché, per quanto se ne parli, nessuno lo sa.