L'ho scritto nel 2011, ma mi sembra sempre tanto attuale.


La servetta di Tracia


Ricordare Eloisa mi ha riportato in mente uno dei momenti più significativi che ho vissuto ad Orvieto e di cui non potevo non parlare qui, anche perché focalizza l'attenzione su una questione che continua a tormentarmi.

 

Non so che anno fosse, ma Eloisa aveva organizzato la presentazione di un libro: Nonostante Platone di Adriana Cavarero. L’unione di due argomenti come il pensiero della differenza sessuale ed il pensiero greco, e la Cavarero era portatrice di entrambi, era per me vitale e non potevo rinunciarvi. Fu una conferenza interessante, fu coinvolgente quanto detto dall’autrice, furono belli e appassionanti gli interventi, di cui ricordo con particolare vivezza quello di Loretta, come sempre acutissima nell’andare al nocciolo delle questioni, che chiese allora maggiore chiarezza sulla “dicibilità” della differenza sessuale. Un bel pomeriggio arricchente e vivificante, come tanti passati insieme allora.

 

Poi lessi il libro e mi appassionò anche quello perché veniva incontro alla mia necessità di mettere insieme questi due mondi tanto lontani eppure tanto compenetrati.

 

E’ un fatto che se siamo arrivati al pensiero della differenza sessuale è anche grazie a chi l’ha negata o male interpretata. E non è un caso se tra le maggiori teoriche della differenza  troviamo soprattutto filosofe. L’esercizio del pensiero e l’abitudine all’approfondimento ci hanno portato a pensare e a farci delle domande. Passaggi necessari e non erronei, solo fallaci. Ma comunque quei pensieri fanno parte della nostra cultura, del nostro DNA, e anche da questo è scaturita la nostra voglia di esplorare finalmente il nostro modo di essere donne.

 

Non è mia intenzione però commentare qui il libro di Adriana Cavarero, penso che costituisca tutt’ora una lettura interessante e quindi alla sua lettura vi rimando. Qui vorrei invece estrapolare un piccolo passaggio di Platone che fa da introduzione ad uno dei capitoli più interessanti del libro.

 

Questo il brano:

 

"Talete, mentre stava scrutando le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo. Allora una servetta di Tracia, garbata e graziosa, rise dicendogli che si dava un gran da fare a conoscere le cose del cielo, ma le cose che gli stavano dappresso, davanti ai piedi, gli rimanevano nascoste”

(Platone, Teeteto)

 

Devo ammettere che per lungo tempo mi sono identificata in pieno con Talete. Le stelle erano tanto belle, lontane, misteriose e affascinanti, che era perfettamente naturale perdersi nella loro contemplazione, nelle riflessioni che da questa contemplazione scaturivano. Mi ricordo tante sere d’estate della mia infanzia, quando uscivo con mio padre ed il nostro cane, tante discussioni di fronte a quelle stelle, tante speculazioni, sogni, fantasie. E quanto spazio hanno avuto nei miei sogni notturni le stelle e il volo libero nel buio luminoso di u n cielo stellato, quanti libri ho letto, più o meno impegnati, più o meno seri, sui viaggi tra le stelle, sul desiderio di perdersi nell’infinito: dall’oceano nebbioso e avviluppante di Gordon Pym, alla dolcezza del cuore di Leopardi. Quanto mi è stato di conforto il pensiero di tutti questi uomini, quanto mi sono ritrovata nel desiderio di alzare le braccia e superare lo spazio immediato per andare oltre, per cercare, per capire, in un’ansia di sapere che non si ferma mai.

 

Per tanti anni sono stata immersa in questa atmosfera d’aria e di sogni, di profondità stellari e di pensiero. Fino all’incontro (all’inizio forse scontro :-))) con le donne, femministe e non femministe, che mi hanno di prepotenza costretto a guardarci, dentro quel pozzo. E, cosa strana, ho scoperto un nuovo universo anche lì, ho scoperto il valore del lavoro quotidiano, della cura delle persone, della relazione, che tanta parte ha avuto nella storia. E finalmente ho capito il riso della servetta, non un riso di scherno, ma il riso allegro e indulgente di chi porta un sapere non conosciuto, un sapere che è un mistero per Talete e mistero è restato per secoli, finché il vento della storia non ce ne ha fatto scoprire finalmente il valore. Quando poi ho partorito i miei figli, ed ho incontrato il sapere assoluto, quello che tutto comprende, ho capito appieno il valore di quell’acqua e di quel riso, senza il quale le stelle non potrebbero essere, né potrebbe esserci un Talete che se ne incanta.

 

Tanto tempo è passato da quel pomeriggio ad Orvieto, e tante cose successe. Persone, esperienze, viaggi, relazioni, letture hanno plasmato la mia vita rendendola sempre più ricca e più bella. Ma ancora oggi mi succede di ripensare alla servetta che ride di Talete, al suo sguardo verso le stelle ed al pozzo pieno d’acqua. Mi sento profondamente e gioiosamente donna e sono felice di quell’acqua che serve a far vivere i corpi. Corpi che non sono distaccati dalle menti. Sono felice di quel riso che mi rende viva e autocritica e che mi permette di imparare sempre e di non fermarmi mai. Ma scopro anche che l’amore per Talete e per le stelle è ancora tutto lì, variato nei modi ma non nell’intensità: mi scopro la stessa voglia di volare nel cielo stellato, la stessa voglia di respirare l’universo, come respiro l’universo quando tengo fra le braccia i miei figli. E scopro una cosa curiosa. Che quel pozzo è pieno di stelle.