Nella storia esistono parole che, una volta dette, contaminano di sé per sempre il mondo.
Una di queste parole è democrazia.
Una volta che, più di 2500 anni fa, in una piccola terra assolata e intrisa dei profumi del Mediterraneo, dal profondo dell’incoscio di un pugno di uomini ha preso forma razionale il concetto che un popolo ha il diritto e la possibilità di autogovernarsi, uomini e donne di tutto il mondo hanno dovuto prima o poi fare i conti con questo concetto.
Non mi riferisco naturalmente alla forma pratica di democrazia applicata nel mondo greco, che è assolutamente peculiare di quell’epoca e di quella situazione, ma all’idea in sé di democrazia che, nonostante a volte le apparenze contrarie, ha continuato a serpeggiare nella storia, insinuandosi nelle situazioni apparentemente più antidemocratiche e “disturbando” continuamente la “pace sociale” costruita sulla prevaricazione dei pochi sui molti.
A cosa si appellavano le rivolte contro il potere che hanno costellato la nostra storia politica se non a un’idea comune, forte e potente come tutto ciò che scaturisce dal profondo del nostro essere, semplice e molteplice come un archetipo: democrazia, il governo del popolo.
E che dire di libertà, fraternità, uguaglianza?
Possiamo discutere fino alla morte sul significato e soprattutto sull’applicazione concreta di queste parole, ma potremo mai porle nell’oblio? fare come se non fossero mai state pronunciate? L’unica cosa che potremmo fare, tutt’al più, è dichiararle fuori moda e metterle da parte per un po’, ma prima o poi torneranno strisciando ad occupare i nostri pensieri, tormentando le nostre coscienze fino a quando non gli avremo dato una forma definita e anche oltre.
Potremmo citarne ancora, di queste parole, come ad esempio solidarietà e differenza…ma ognuna di loro meriterebbe un capitolo a parte.
C’è invece una parola che non è ancora stata detta ma che bussa alla nostra coscienza: una parola che preme ormai per essere esplicitata e per contaminare di sé il mondo. Io non so qual è questa parola, so solo che finora è stata espressa per negazione: non violenza, non aggressione, non prevaricazione, ma non è ancora “la” parola perché oggi non basta più negare ma occorre affermare, affermare una nuova cultura.
Una cultura che si basi sul totale rifiuto della violenza nella soluzione dei contrasti, da quelli personali a quelli di classe, a quelli tra nazioni. Perché solo rifiutando completamente la violenza, senza eccezioni, potremo costruire dei nuovi modelli di riferimento, modelli di collaborazione e non di competizione che ci facciano cercare automaticamente, senza neanche pensarci, una soluzione di compromesso in ogni contrasto, proprio come oggi tendiamo automaticamente all’autoaffermazione a scapito dell’altro.
Per realizzare questo “automatismo della non violenza” è indispensabile non fare eccezioni, non cedere mai alla tentazione di giustificare l’aggressione in nome di giuste cause, altrimenti troveremo sempre il modo di trovare attenuanti a qualsiasi tipo di atrocità.
Uccidere è uccidere e basta, sia che si faccia con un coltello, con un fucile o con bombe “intelligenti”.
Purtroppo è anche la soluzione più facile. Allora, per dare al nostro cervello la spinta necessaria a trovare invece soluzioni difficili, difficilissime, quasi impossibili, occorre convincersi, nel più profondo del proprio essere, che la violenza non è giustificata MAI..
Mi viene in mente il caso di un pilota americano, di cui purtroppo nessuno sa più il nome, che, trovatosi alla guida di un Jumbo senza più carburante, ha tentato un atterraggio di fortuna ed è riuscito a portare in salvo tutti i passeggeri. Impresa mai riuscita su un simulatore di volo. Impresa difficile, difficilissima, quasi impossibile. Eppure è riuscita, proprio perché non c’erano soluzioni più facili sotto mano.
E le situazioni in cui i governi si trovano quando scelgono la violenza non sono quasi mai così disperate come quella di quel pilota. Come anche le mille situazioni di scontro quotidiane in cui si sceglie la prevaricazione come soluzione quasi automatica. Ben comprensibile del resto, visto che siamo cresciuti tutti in una cultura che ci ha abituato a tollerare e a giustificare la violenza, con il pretesto che le guerre erano delle “scosse” storiche necessarie al progresso.
Progresso? Davvero il progresso è stato realizzato da chi ha ucciso e distrutto? E non piuttosto da chi, con infinita pazienza, ha conservato e ricostruito? Oppure scritto, letto, insegnato, tramandato. Fortunatamente lo studio della storia è molto cambiato in questi anni e se, ancora quarant’anni fa i testi scolastici veneravano senza condizioni Alessandro Magno e Napoleone, quelli più attuali non tacciono più le stragi assurde a cui questi e altri personaggi si sono abbandonati, né le loro isterie, insinuando il dubbio che i grandi progressi che queste stragi avrebbero portato si sarebbero potuti realizzare anche senza carneficine, che è stata la potenza della cultura greca e di quella francese a realizzare un cambiamento epocale, cambiamento avvenuto non grazie alle stragi, ma nonostante le stragi.
Personalmente ho un sogno: che a scuola si impari ad ammirare chi salva le vite e non chi le distrugge, che si sappia qualcosa di più di Erasmo da Rotterdam o di Sebastian Castellion e un po’ meno di generali e condottieri.
È un immane lavoro quello che abbiamo di fronte: rifondare la nostra cultura su basi diverse, senza togliere o dimenticare nulla, ma cambiando radicalmente l’ottica, partendo dal presupposto che la violenza non può né deve essere mai giustificata e che quindi bisogna armarsi di tutte le nostre forze per cercare, nel micro e nel macrocosmo, soluzioni di compromesso.
Inevitabile il ricorso alla parola utopia. La sento già, in anticipo, risuonare nelle orecchie...
Ma che cos’è un’utopia? Cito dallo Zingarelli: “concezione, idea, progetto, aspirazione e simili, vanamente proposti in quanto fantastici e irrealizzabili”. Allora la cultura della non violenza non è un’utopia. Primo perché non è niente di fantastico ma anzi, di molto concreto, secondo perché non ci sono ragioni obiettive e concrete che non la rendano realizzabile.
Il problema è solo “quando”.
Sicuramente nell’arco della nostra vita si potranno a malapena gettarne le basi, sicuramente ci saranno tragedie, delusioni, passi indietro, ma questo seme darà prima o poi dei germogli. Ormai il concetto è stato espresso ed il mondo non se ne libererà più.
Abbiamo mai pensato a quante utopie sono state realizzate nella storia? L’abolizione della schiavitù era per i greci probabilmente un’utopia, la monarchia costituzionale era per il Re Sole qualcosa di peggiore di un’utopia, la repubblica stessa è stata per tante persone, per secoli, una forma di governo utopica. E per finire lasciatemi dire che io come donna non vorrei essere nata neanche un pugno di anni prima, perché la pari dignità fra i sessi è stata fino a pochi decenni fa solo e soltanto un’utopia.
Allora bisogna avere forse il coraggio di lavorare e progettare un’azione che non si fermi soltanto al nostro orizzonte e neanche a quello dei nostri figli, ma che guardi al cambiamento della società nel tempo, accontentandosi anche di quelli che sembrano solo piccoli passi.
Un piccolo passo è oggi intanto dare voce a questi pensieri, ritrovarci e progettare insieme, soffrire insieme delle bombe che cadono, condannarle, gridare a gran voce il nostro rifiuto, sforzarci di pensare a tutto quello che si può fare per non farle cadere.
Così come sforzarci nel quotidiano di abbandonare aggressività e prevaricazione.
Allora l'utopia non è più utopia ma possibilità, è solo questione di tempo.
Qual è allora questa parola che manca alla storia? Io ancora non la so ma so che un giorno qualcuno la dirà e che sarà bella, bellissima. E che il mondo non potrà più farne a meno.
Emilia Sonni Dolce
Donato Musti , Storia greca - Laterza
Prosperi – Viola, Storia moderna e contemporanea - Einaudi